«Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre» da sola, questa frase di Sallustio sul tema del mito può spiegare con straordinaria concisione le opere in mostra: ventitré fotografie in edizione unica, che la galleria Doppelgaenger ha fortemente desiderato di esporre perché il lavoro di un artista come Miroslav Tichý, con la sua anima plurima e la sua paradossale vita, è stato subito avvertito come il giusto punto di inserzione da cui muoversi per nuove ricerche, per superare altre linee d’ombra.
Nella contemporanea storia della fotografia d’arte, le opere di M. Tichý appaiono come segni di un alfabeto oscuro, integrazioni di una nuova letteratura: invertono i metodi e sospendono ogni forma. Lo stesso artista con disincantata ironia affermava: “ti serve innanzitutto una pessima macchina fotografica per fare delle belle foto”.
E così M. Tichý trascende la temuta “riproducibilità tecnica” e, in un’operazione che potremmo con leggerezza descrivere come sospesa tra il naïf e l’Art Brut, egli stesso costruisce i suoi passpartout, segna con la grafite le sue opere, graffia i fogli che talvolta appaiono anche stracciati, crea un nuovo modus che avvicina di molto la fotografia alle altre arti figurative. La vicenda artistica di M. Tichý si compie nella Cecoslovacchia degli anni ’60/80: in questo arco temporale l’artista compone una “bulimica” opera di scatti rubati ed esclusioni, di attimi colti secondo una cifra stilistica che diviene fotografia, ma che trasmetterebbe la medesima potenza autoriale qualunque fosse la pratica di rappresentazione scelta.
Significativa diventa in molte opere l’attenzione dedicata al fondo dell’immagine che è una caratteristica tipicamente pittorica. La pittura è in effetti il punto di partenza della ricerca di Tichý, forma espressiva tuttavia abbandonata negli anni Cinquanta, quando l’artista inizia a costruire le proprie fotocamere artigianali con disparati materiali di recupero e lenti semplici, per trasportare nell’impressione su pellicola l’istintuale rapidità dello schizzo da disegno. I suoi soggetti sono corpi che si concedono, introdotti alla realtà dallo sfondo che, in alcuni casi, si impone su di essi, dedicando loro il paradosso di essere soggetti, protagonisti, ma in ogni caso figure caduche.
Il tempo è fermato nello scatto fotografico, ma non come raffigurazione mimetica, quanto piuttosto come forma immanente: la natura provvisoria delle opere e dei mezzi scelti per comporle prosegue nelle atmosfere rappresentate. La caducità di questi scatti – e della radicale flaneurie eletta a stile di vita da Tichý – suggerisce un’ulteriore lettura, evocativa, romantica e sensuale, che fa da pendant temporale alla natura conclusa dell’opera: è così che la linea di un corpo, i contorni di donne, ora vaghi, ora netti e definiti, si delineano come orizzonti incantati, per nulla mentali, che non concedono ispezioni reali del quotidiano.
Le opere riprendono figure e pose in atteggiamenti consueti, vicende conosciute e condivise, ma nessuna rinuncia alla propria storia, alla propria biografia, poiché queste figure sono i veri luoghi della poetica di M. Tichý. Queste opere non sono state pensate e realizzate per essere mostrate, il nostro sguardo in realtà è solo interferenza ed esse rimangono gesti che appartengono sempre e soltanto a se stessi, a quel solo ed unico momento in cui “artigianalmente” è avvenuto lo scatto e il successivo sviluppo. Questo è uno degli “involontari” regali che l’artista ci ha donato: è molto probabile che il periplo artistico-fotografico di M. Tichý non possa essere o ancora meglio non dovrebbe essere.
Gli avvenimenti raffigurati sono chiusi all’interpretazione, alla riconsiderazione, alla reinterpretazione, in una solida e felice autarchia; cercare di comprendere le regole di un’intimità conservata tanto gelosamente potrebbe risolversi in un atto puramente egoistico – sebbene questa intimità sia ormai svelata, oggi che ci è permessa la visione di ogni fotografia di M. Tichý salvata da Roman Buxbaum, artista-psicoterapeuta, uno dei pochi mediatori tra il fotografo ceco e il mondo esterno. Probabilmente, ponendoci di fronte a una foto di M. Tichý dovremmo “semplicemente” cedere al fascino di opere che suggeriscono le conseguenze di un’artistica malinconia; capire il senso di una memoria che recalcitra a imporsi, in questi poetici paradossi.
Quindi dovremmo imporci di essere gli spettatori di un equivalente mondo terreno e transitorio: nelle opere, il tempo della quotidianità continua a scorrere, mentre l’immagine almeno per un momento esiste; questa sospensione e questa distanza dalle cose appaiono in assonanza con le parole di Michelangelo Antonioni, che negli stessi anni affermava: “…sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra che è più fedele alla realtà, e sotto questa ce n’è ancora un’altra, e un’altra ancora sotto quest’ultima, fino alla vera immagine dell’assoluta, misteriosa realtà che nessuno mai vedrà. O forse, non fino al momento della decomposizione di ogni immagine, di ogni realtà”.
Entrambi i maestri per ritrarre le vicende spesso detemporalizzano le loro immagini e una dimensione distopica organizza il materiale, a prescindere dalla narrazione. La formazione pittorica diventa evidente: l’artista lavora sulle sue foto come su fogli da disegno, sfibrando la narrazione, non seguendo più le regole della fotografia (punto di vista, messa a fuoco, etc.), per inventare un modo altro di organizzare il profilmico di ogni scatto. In altre immagini, invece, è la composizione a gestire l’opera: appaiono costrutti metafisici, strutture in bianco e nero, sorta di solidi geometrici a cui appartengo anche le figure umane.
Altrimenti, subentra un’ulteriore dimensione a privare la vicenda del proprio tempo, una dimensione che rende le opere complesse, nonostante la banalità delle vicende descritte; l’estendersi della composizione dell’immagine è coordinata da quella sorta di palcoscenico teatrale che diventa – per esempio – un asciugamano appoggiato, la cui prospettiva attraversa lo spazio aperto, luminoso e confidenziale, sino a perdersi nel grembo grigio dello sfondo sull’angolo opposto.
Piccole accortezze compositive che per M. Tichý fanno la grandezza dell’operazione della fotografia, la sua capacità di fermare l’eterno e l’attimo; momenti su cui fermarsi in un secondo tempo, nell’intima dimensione della stampa fotografica artigianale, dove avviene il quieto estendersi di quel suo ossessivo ricercare; un ambito che rimanda e allinea la figura di M. Tichý al classico e a tutti quei grandi artisti che i coniugi Wittkower, in maniera incredibilmente pertinente, chiamavano i “Nati sotto Saturno”.