Mariateresa Sartori va sulla spiaggia del Lido, si siede sul suo piccolo seggiolino e ascolta il mare. Passa ore ad annotare su fogli pentagrammati le variazioni del suono delle onde che si infrangono sulla spiaggia. Si trasforma in sismografo, segnando e tracciando in modo variamente intenso con una matita a carboncino l’andamento delle altezze del suono delle onde che si infrangono sulla riva: «Cerco la perfetta sincronia tra mano e suono, la sua durata, il suo volume, la sua forza, il suo ritmo, la sua carica discendente o ascendente, il suo affievolirsi, il suo rinforzarsi». Nascono così pagine e pagine segnate da linee nere più o meno marcate, trasparenti, spezzate, uniformi, continue e vagamente ondulate.
Nell’installazione in mostra i fogli, particelle singole di una totalità più ampia, sono ricomposti in un’unica serie continua sulla parete. All’artista preme sottolineare che «il principio della variazione (non esistono due suoni di onda uguali) diviene sempre più evidente soltanto al suo crescere». Per questo è indispensabile che l’installazione a muro sia sufficientemente grande, in modo da poter esprimere il principio dell’unicità dell’evento, che si ripete sempre uguale ma sempre diverso.
È tracciato così lo spazio delle «piccole percezioni», che si riescono a sentire perché insieme formano un unicum. La singolarità produce il tutto; il dettaglio e il frammento ottengono visibilità ancora prima di acquistare una certa rilevanza percettiva: lo scrive Leibniz nei Nuovi saggi sull’intelletto umano” agli inizi del Settecento. Un giorno in studio Mariateresa ne legge un passo: «Ora, per chiarire ancor meglio cosa intendo per piccole percezioni che non potremmo distinguere nel loro insieme, sono solito servirmi dell’esempio del mugghio o rumore del mare dal quale si è colpiti quando si è sulla spiaggia. Per udire questo rumore per come lo si ode, bisogna bene che se ne odano le parti che compongono il tutto…». Sorprendente. «Lo sai che uno dei modi più semplici per avvertire il passare del tempo è l’ascolto del suono?» Non ci avevo mai pensato. «Sì, un suono che comincia e finisce».
Il lavoro di Mariateresa Sartori, che traduce in forma visiva il suono delle onde del mare, rappresenta il tentativo di ascoltare lo scorrere del tempo. Nelle nostre lunghe e intense sedute in studio, l’artista mi spiega che per trasformarsi in uno strumento sensibile e lasciare che il ritmo del mare l’attraversi, ha dovuto fare spazio e letteralmente diventare le singole variazioni: «devo fare un vuoto spaziale che permetta al fluire delle variazioni di entrare e farsi sentire … nel momento in cui riesci a coincidere totalmente con il flusso che percepisci attraverso le singole parti allora riesci a sentire anche il flusso». Si tratta di una vera e propria attività di “meditazione”, che richiede una resistenza fisica potente. Un’ora sono venti fogli. Il risultato è un’immensa partitura musicale che codifica il flusso sonoro e temporale.
Con una semplice scatola di cartone nera, tenuta insieme da nastro adesivo – a formare una fotocamera stenopeica – Mariateresa Sartori va in giro a raccogliere istantanee dal mondo sensibile, quasi una prova «che la realtà esiste». La tecnica della fotografia stenopeica è essenziale: la luce passa attraverso il foro praticato nella scatola, imprimendo un’immagine sulla carta fotosensibile inserita all’interno. Nelle sue sperimentazioni l’artista ha prodotto magnifiche serie dedicate alle forme delle nuvole, alle semplici erbe e a piccoli dettagli di quadri antichi. Anche in questo caso l’artista ha scelto «un processo meccanico su cui la possibilità di intervento è sensibilmente limitata: le variabili su cui non si può esercitare controllo sono innumerevoli e contribuiscono al risultato finale che è la somma di tutto quello che è accaduto durante i lunghi tempi di esposizione».
Si tratta di nuovo della registrazione di un dato di fatto, che produce un’impronta meccanica: impronte che diventano “testimoni” di vita, prove di accertamento dell’esistenza. Mariateresa raccoglie nella sua scatola frammenti dalla realtà, come se davvero “prendesse” fisicamente quella foglia o fiore, invece che limitarsi a “riprenderne” soltanto l’immagine. Insieme, colleziona istanti di vita. Riesce in questo modo a farci accedere a una dimensione intima, privata, che si configura come una semina della propria esistenza. Nel tempo rimangono imbrigliati i ricordi. Una materia a volte precisa e indelebile, altre volte opaca, labile e confusa. I ricordi s’incastrano nella nostra memoria come diamanti, oppure spariscono veloci, lasciandoci senza tempo. Le prove di accertamento del reale devono passare per quest’artista attraverso una tecnica non sofisticata.
Non per snobismo ma per avere più coscienza ed esperienza del “vero”. Per questo ogni modello che costruisce, anche se ogni volta si avvale della consulenza di specialisti e tecnici – biologi, scienziati, urbanisti, attori, linguisti… – deve passare attraverso la sua sensibilità. La fotografia stenopeica risulta per lei interessante in quanto è uno strumento “primitivo”, che le permette quasi di trasformare sé stessa in macchina fotografica. D’altra parte il procedimento stenopeico è accostabile alla fisiologia umana: la scatola è la testa, il foro è l’occhio, la carta fotosensibile è la retina. È ancora il concetto di impronta a risultare centrale. All’artista interessa attestare soprattutto la traccia di ciò che è esistito e non è già più qui.
Lo ha scritto bene Didi Huberman, facendo notare come l’impronta «ci parla sia del contatto (il piede che sprofonda nella sabbia) sia della perdita (colui che cammina non è più presente)», e sollevando la questione del rapporto tra memoria e presente. Ci troviamo dentro quella grande possibilità che l’arte possiede di trasportare la caducità dell’esistere in una dimensione metafisica ed eterna. Penso anche alla serie delle nuvole e al tentativo di imbrigliare un fenomeno mutevole e mobile nell’immagine fotografica: prove di esistenza di un accadimento effimero. Mariateresa affida all’arte il compito di fissare ciò che passa e trascorre, di proteggerlo in uno spazio magico, che lo salvi dal suo destino di sparizione. C’è qualcosa di essenziale sul confine delle differenze ed è proprio in quel divario che inizia una nuova possibilità di comunicazione e d’invenzione.
Mariateresa Sartori conosce quella fessura che si apre tra soggetto e realtà oggettiva. È tutto. Una sorta di fiducia nella capacità di modificare un contesto a partire da interventi minimi, misurati, precisi e necessari ha portato la ricerca di quest’artista a servirsi quasi sempre di ciò che già esiste sopra e sotto la pelle delle cose; soprattutto, l’ha spinta a cercare codici nuovi, a partire da ciò che c’è ma non si vede che spesso agisce in modo sotterraneo.
Chiara Bertola
(parole in parte tratte dal testo Mariateresa Sartori – L’illusione della certezza pubblicato in Dire Il tempo. Mariateresa Sartori, Gli Ori, Prato 2019).