Je dis : une fleur ! et, hors de l’oubli où ma voix relègue aucun contour, en tant que quelque ha scelto d’autre que les calices sus, musicalement se lève, idée même et suave, l’absente de tous bouquets.
Stéphane Mallarmé, Crise de vers
(da Divagazioni, 1897)
A cosa equivale l’atto di dire “un fiore”? Prova a dirlo a te stesso e poi a immaginarlo. Un fiore. Nella nostra mente uno o più fiori specifici non possono che materializzarsi; immagini forse vaghe, ma riconoscibili: i petali, per esempio, avranno una certa forma e un determinato colore. Potrei avere in mente un ranuncolo, qualcun altro una passiflora, qualcun altro una rosa. Il linguaggio e il pensiero ordinari trasformano le parole in una valuta per lo scambio di informazioni; per esempio i lineamenti di una rosa, di una passiflora, di un ranuncolo che io e i miei interlocutori abbiamo giocato a immaginare.
Tuttavia, al di fuori del cerchio del parlare e del pensare ordinario si estende il dominio potenzialmente illimitato della poesia. Allora, riformuliamo la domanda iniziale: a cosa equivale l’atto di dire poeticamente “un fiore”?
Nel rivoluzionare la funzione poetica attraverso un rovesciamento gerarchico e antirealistico del significato e della risonanza di una parola, Mallarmé, egli stesso appassionato giardiniere e orticoltore, non ha mai scritto la parola fleur, né le parole più specifiche hyacinte, myrte o rose (Les fleurs, 1887) senza aspirare alla stessa idea soave di un fiore, quell’idea che è assente da ogni bouquet e che nasce solo musicalmente dalla penna del poeta.
Ut pictura poësis: il giardino che pittoricamente nasce dalle pennellate di Gaël Davrinche potrebbe avere dei tratti precisi – dai fiori d’inchiostro che compongono la tassonomia di un Erbario a quelli quasi iperrealisti di Nocturnes – tuttavia non va preso come un saggio in rappresentazione floreale. Eppure – affascinante paradosso – l’unità dell’idea si ottiene attraverso la molteplicità delle sue manifestazioni, e attraverso un lavoro di sintesi, come dimostrano i diversi stili pittorici a cui Davrinche ci ha abituato, e che padroneggia con consumata maestria. Dal realismo accecante alla natura morta napoletana e olandese, all’immagine sfocata alla Gerhard Richter; dalle distorsioni espressionistiche che richiamano la Neue Wilde ai colori piatti di alcune corolle che sono un chiaro omaggio a Warhol, per finire con la pura astrazione dei quaranta Campi cromatici, in cui, inaspettatamente, l’artista decide di sedersi al stesso tavolo di Malevič, Mondrian e Rothko.
A partire dal titolo stesso, la mostra annuncia un passaggio, non tanto una passeggiata tra prati fioriti, ma più una “digressione”, come quella di Mallarmé che abbiamo citato in apertura del nostro testo. Come spesso accade con Davrinche, siamo testimoni di una flanêrie creativa nella storia della pittura in cui il fiore resta uno dei suoi soggetti più frequenti.
C’è solo una figura in tutto il corpus in mostra; appare nel dipinto The Stroll: un uomo nelle vesti dell’alter ego dell’artista, lungo un percorso di sintesi, dal realismo all’astrazione, dove il pittore francese rivela il suo “io” poetico come soggetto autentico della propria opera.
Vittorio Parisi